Diario dei frutteti: ur perásch

09.10.2020

Qualche tempo fa, Cec, un caro amico con il quale condivido molti interessi, mi mostra un paio di piccole pere dalla forma particolare, rotondeggiante, e mi consiglia di andare a vedere l’albero da cui provengono sul maggengo di Piánche. Mi racconta che l’albero è carico di frutti: “ce ne sono quintali, una quantità incredibile”. Non mi sa dare però altre informazioni, non sa nemmeno se si possano mangiare, sa solo che quell’albero è lì da sempre. Il giorno seguente mi incammino.

 

Arrivato a Piánche trovo subito la pianta. Mentre la osservo, arriva la voce di Edio che, dall’esterno della sua cascina, mi dice di non aver mai mangiato i frutti di quel pero, precisa che nemmeno i cinghiali li apprezzano e rimangono a marcire per terra. “Ho provato anche a cuocerli – racconta Edio – ma sono immangiabili!”. Mi regala ancora qualche aneddoto di quegli alberi che vivono nella sua memoria (alberi i cui frutti sì che si mangiavano*!) e poco dopo mi avvicino con curiosità al pero.

 

È una pianta imponente, alta almeno 10 metri, vigorosa e stracolma di frutti belli e sani. Anche per terra ce ne sono molti, tutti integri, di colore giallo. Ne vedo uno con un quarto mancante tagliato di netto. Qualcuno deve averlo assaggiato e non l’ha trovato di suo gradimento. Ne assaggio anch’io uno: il gusto è decisamente migliore rispetto alle aspettative, ma è indubbiamente strano!

 

Il pomeriggio seguente li mostro con curiosità a Muriel, la pomologa con cui sto conducendo la mappatura. A lei basta uno sguardo: “questa non è una pera – la annusa, la seziona, la assaggia – è una Nashi! Non sapevo cosa fossero le Nashi, ma continuando la nostra ricerca scopriamo che qualcuno, già qualche secolo fa, inorridiva al paragone delle Nashi con la nostra pera europea (Pyrus communis). Eppure Nashi, in giapponese, significa proprio pera, ma si riferisce a quella numerosa famiglia di pere asiatiche appartenenti alla specie Pyrus pyrifolia. Anche se qui in Europa le conosciamo a apprezziamo poco, sono tra le pere più coltivate sulla terra, spesso riconoscibili dalla retina bianca di protezione che ricopre la loro superficie delicata. In diverse culture asiatiche sono stati considerati frutti nobili, doni prelibati, e l’albero veniva addirittura utilizzato come protezione dal malocchio. Il sapore dolce e dissetante esprime il gusto delle civiltà che si sono impegnate a selezionare le loro caratteristiche per millenni. Per apprezzare le Nashi, dovremmo forse evitare di cercare in loro il sapore delle nostre pere. Seppur appartengano allo stesso genere botanico, Pyrus, le Nashi ci permettono di sentire la diversità di sapori che possono generarsi in diversi contesti bioculturali.

 

Ora la domanda che ci poniamo è come sia possibile che a Piánche, un maggengo isolato di Sonvico, lontano dalle vie di traffico, sia stata messa a dimora con tanto anticipo una pianta introdotta solo alla fine del ‘900 in Europa e ancora oggi considerata marginale sul territorio. L’origine di questa pianta ha solleticato la nostra curiosità: indagheremo. Affaire à suivre!

 

 

Contributo di Maurizio Cerri
Gruppo di lavoro per la mappatura delle antiche varietà di alberi da frutto sul territorio di Lugano

 

 

* Edio racconta degli sgalfión, grosse ciliegie sode giallo-rosse, dei scirés salvádegh, degli zanzuín e delle amarene con le quali facevano ra marenáda, una bevanda particolarmente dissetante. A quei tempi, racconta che la Candina offriva loro ur birchermüsli di vac. Chiedo spiegazioni: era semplicemente un birchermüesli preparato con l’avena destinata all’alimentazione delle mucche. Mi racconta anche di quando prendevano la foglia di castagno per mangiare la schiuma del latte appena munto: “quanca la molgéva am tiráva via ra scúma córa föia de castégna”.

Il "pérasch" del maggengo di Piánche (MAP322)
Il Nashi dalla polpa croccante, granulosa, succosa, acida, dal sapore delicato, ma caratteristico (MAP322)
I frutti gialli del vecchio Nashi di Piánche (MAP322)
I frutti color ruggine di un giovane Nashi di Pregassona (MAP 323)

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